Intervista a Lucrezia Moro

Fashion design sostenibile

La rivoluzione del brand fashion BILULU

Il format “Fashion & Sustainability, let’s talk” riprende il suo corso, stavolta con un’intervista esclusiva a Lucrezia Moro, founder di BILULU, marchio indipendente che crea capi unici e su misura impiegando tinta con colori vegetali autoprodotti e di origine locale.
Fondato nel 2013, BILULU offre la possibilità di riconnettersi alle tradizioni artigianali attraverso capi senza tempo e senza genere, in uno stile rilassato e informale. Lucrezia è anche fondatrice di Tintura Madre, un collettivo di professionisti e appassionati con una coscienza sociale, ambientale e politica che si impegna a promuovere le pratiche della tintura naturale su tessuto.

“Decentralizzare la Moda”, cosa significa per te?

Grazie alla circolazione di documentari e inchieste iniziano ad essere noti aspetti della produzione industriale del settore moda, che per anni sono rimasti nascosti. Lo scenario paralizzante e frustrante che descrivono genera rabbia nei fruitori più sensibili.
Gli utenti vogliono partecipare, conoscere del processo produttivo anche ciò che non viene raccontato. Vogliono potersi esprimere, mostrare la propria peculiarità di individui piuttosto che semplicemente conformarsi a un trend. È tempo di immaginare orizzonti completamente nuovi. Per questo ho voluto azzardare prendendo in prestito il termine “decentralizzare” dal mondo del Web3, in cui osserviamo sempre più realtà che usano la tecnologia per offrire una gestione distributiva e decentralizzata delle risorse (anziché estrattiva).
Decentralizzare la moda vuol dire uscire fuori da un sistema individualista, depauperante ed egoriferito; per costruire alternative rigenerative, collettive, trasparenti, inclusive. Dove inclusivo è usato con la sua accezione più ampia, ossia quella della valorizzazione dell’interconnessione di esseri umani, animali, piante e via dicendo. I piccolissimi brand indipendenti come il mio fanno circolare prodotti intrisi di significato.
Raccontare che per produrre i propri colori si raccolgono piante infestanti – solitamente combattute con pesticidi inquinanti – invece di comprare estratti naturali ex-novo, è parte di questo approccio.

BILULU riflette la tua profonda esperienza delle tinture con pigmenti vegetali.
Al giorno d’oggi, come stimolare in chi compra moda una migliore comprensione del rapporto tra abbigliamento e natura?

Sicuramente attraverso la trasmissione e il racconto dei processi creativi di un manufatto artigianale – quindi fuori dal sistema industriale – che faccia comprendere il modo in cui l’artigiano “risolve problemi”.
Il piccolo artigiano è libero di decidere della gestione del proprio tempo: se procedere realizzando l’intero capo – dal taglio alla confezione finale – oppure tagliare tutti i pezzi, poi passare alla confezione e via dicendo.
L’artigiano si occupa anche della scelta estetica del suo prodotto, della comunicazione dei valori del brand.
Quindi ha la responsabilità, e con essa la libertà, della creazione dalla A alla Z.
Per quanto riguarda la parte di impatto ambientale invece è di primaria importanza spiegare l’origine e la natura delle materie utilizzate.
Chi come me sceglie di produrre in modo sostenibile ricerca fornitori attenti, coinvolti, che selezionino accuratamente materiali e processi: conoscerli personalmente è un valore. Si lavora dunque in sinergia (artigiani e fornitori) per un prodotto che sia al contempo performante, ma non velenoso per l’ambiente. Porto l’esempio di Tea Natura, azienda marchigiana, dalla quale acquisto i prodotti per il lavaggio delle mie fibre: mi sento regolarmente al telefono con il responsabile e con piacere lo ascolto raccontare dei volumi di plastica risparmiati, della creazione di prodotti concentrati, dell’avanzamento del progetto ‘Ridetersivo’ (che dà nuova vita ad olii post-consumo) e molto altro.
Siamo amici, ci stimiamo e supportiamo a vicenda. Nel prezzo in più che riconosciamo a un prodotto artigianale c’è tutto questo (e molto altro).

Hai fondato il Collettivo Tintura Madre, che promuove e divulga le pratiche della tintura naturale su tessuto.
Come la vostra community può ispirare il mondo del fashion alla transizione ecologica?

Il Collettivo Tintura Madre, che ho fondato con Elena Gradara, è la rete degli operatori del colore naturale in Italia: non si rivolge esclusivamente a chi lavora tessuti e filo, ma anche a chi è del settore delle belle arti, per esempio. Noi siamo ancora una minuscola realtà di visionari, che mette prima del valore economico quello etico. Nel nostro piccolo cerchiamo di stimolare artigiani come noi ad avere una mentalità professionale (cosa non scontata per chi comincia dal mondo del craft come autodidatta). Essere interlocutori del settore moda significa far sì che la nostra esperienza e i nostri valori vengano riconosciuti dai brand con cui collaboriamo, che vengano inclusi nello storytelling del prodotto e che quindi arrivino all’utilizzatore finale. Fare tintura naturale non vuol dire solo sostituire un colorante sintetico con una polvere di origine naturale (lasciando invariato il processo di produzione), ma anche sposare una filosofia sostenibile a 360° che sia attenta alla salute dei lavoratori e all’ambiente in cui e da cui le materie prime vengono prelevate e smaltite.

Tintura con pigmenti vegetali: si può industrializzare in modo sostenibile?

Le risorse a nostra disposizione non sono infinite. È dovere di tutti ragionare in una logica di recupero e corretto smaltimento dei materiali. Come? Costruendo una rete trasversale che crei servizi per le aziende, condividendo pratiche virtuose di produzione e renda disponibili risorse inutilizzate o inutilizzabili: ciò che alcuni considerano “scarti” sono materia prima per altri: questo allunga la vita delle risorse, contiene il depauperamento del pianeta e minimizza l’impatto di produzione. In Italia sempre più aziende parlano di sostenibilità e tintura naturale, ma per ora è di pertinenza di tintorie convenzionali che per alcuni lotti utilizzano estratti naturali invece dei coloranti sintetici.
Per industrializzare la tintura naturale è necessario ricalibrare tutto l’asset produttivo: ragionando in termini rigenerativi per la difesa del territorio piuttosto che di abbattimento dei costi. Avviare uno scambio virtuoso con le amministrazioni locali può essere un modo per far rete tra aziende e trovare punti di incontro, nell’ottica di pianificare e minimizzare l’impatto ambientale.

Realizzi corsi divulgativi su tintura vegetale, up cycling tessile e arte del rammendo nel tuo Atelier di Trastevere e per la testata omnichannel “Domestika”.
Riesci già a percepire una maggiore consapevolezza verso una moda più sostenibile?

In realtà sento che sempre di più chi acquista è consapevole che i nostri armadi (in questa parte del mondo perlomeno) sono saturi di beni.
Non ha più molto senso acquistare, e acquistare ancora, nuovi beni. Da “consumatori” mi sembra che stiamo cercando di diventare “utilizzatori”. Quindi attori più attenti e presenti che attribuiscono un valore molto reale e personale agli oggetti. Vogliamo poter dire la nostra, modificare un capo che non ci piace più o ripararne uno consumato a furia di portarlo. Mi riempie di gioia poter aiutare le persone ad acquisire questa competenza, questa indipendenza.
Sicuramente la bellezza è un fattore rilevante in questo aspetto. Acquistare un oggetto bello ci fa venire voglia di custodirlo e garantirne la durata. Una cosa acquistata di fretta e a poco è più probabile che ad altrettanto a cuor leggero venga gettata via.

Come avvicini i tuoi studenti a una dimensione “contaminata” e immersiva dell’artigianato, e quali sono i risvolti creativi di questo approccio?

A volte i miei studenti mi chiedono cose molto specifiche, come ricette per esempio.
Certo quelle sono importanti, ma oltre a quelle è ancora più importante capire che, come tintori, siamo molto ignoranti rispetto ai nostri predecessori, in un certo senso.
La tintura si basava su ricette segrete, che sono andate perse con la scoperta dei coloranti sintetici più o meno a metà del XIX secolo. Oggi abbiamo la possibilità di integrare lo studio accademico, il metodo scientifico e quello empirico dei crafter come me, per esplorare al livello globale l’immensa quantità di informazioni (ad oggi ancora inesplorata), della tintura naturale. Questo è un approccio che io stessa, nel mio percorso personale, cerco di favorire. Imparare da altre tecniche, per esempio: studiare ecoprint pur continuando a preferire la tintura per immersione, mi fa capire meglio la potenzialità delle piante e delle mordenzature (che sono la parte che riguarda la preparazione delle stoffe prima della colorazione). Oppure lavorare con inchiostri vegetali e pennelli, liberando la mente ed entrando in un gioco apparentemente privo di direzione, mi permette di capire meglio le “macchie”, che sono parte caratterizzante del mio lavoro con le stoffe. L’errore ha un ruolo decisivo in tutto questo.
L’inaspettato, il non previsto è ciò che può ampliare la nostra sensibilità, farci allentare il senso estetico dell’identità che ci portiamo costantemente dietro.

Essere liberi di sbagliare permette di entrare in uno stato di stupore.