Anna Piffer

Classe: 1997
Nazionalità: Italiana | Italian
Corso di laurea: Graphic Design

Mi chiamo Anna, ho 24 anni, lo sguardo annebbiato e la mente confusa.

Vivo in un castello di carta, che cade con un soffio di vento, ma si ricostruisce ogni giorno diverso. Cammino con la testa bassa perché inciampo sulle formiche. Ho la testa piena ma la bocca chiusa. Non mi mancano le parole, ma escono solo al momento giusto. Bevo caffè non perché mi piace, ma perché si fa così. Dormo con un piede fuori dalle coperte altrimenti rischio di essere inghiottita. Colleziono momenti perché ho paura di dimenticare. Giro senza meta. Iperattiva. Se mi fermo il mio pianeta smette di girare. Attendo. Sono sempre in attesa, di cosa o di chi non lo so. Aspetto. Mi piacciono i posti senza identità, quelli che possono essere tutto e niente. Ho sempre un foglio bianco davanti. Spesso rimane pulito per giorni. Costruisco per distruggere. Non si fa così? Inizio tante partite, ma non porto mai a termine il gioco. Non mi piace la parola fine. In fase di. Se metto un punto non posso riprendere la mano. Vorrei già sapere chi sono, ma chi lo sa? So quello che mi piace e quello che odio. Ma può cambiare. Il mio approccio progettuale mi spinge a fare questo. Leggo tanto, alle volte troppo perché voglio sapere.

Divago, si può vedere, ma ho il mio ordine. Avrei dovuto presentare chi sono, e cosa faccio, ma mi son persa in un bicchiere d’acqua.

Sono un graphic designer, laureata presso Rufa, Rome Academy of Fine Art nel febbraio 2020, con un approccio poliedrico che vive di continue influenze. Ho poi conseguito un master di formazione in Comunicazione visiva per la moda perché ho pensato che non fosse abbastanza. Ma questo è solo una piccola parte di me, un frammento, non il totale. Sono un’esploratrice che non ha ancora scoperto dove andare.

NON L’HO FINITO – L’estetica del non finito

Forse un inizio (incipit)

Nella mia camera penso che ci siano più cose lasciate a metà che concluse. Pezzi di un qualcosa che doveva essere ma non è. Cumuli di materiale che dovevano diventare opere definitive, ma sono rimasti scarabocchi sparpagliati sul pavimento. Puzzle pieno di pezzi mancanti.

Spazzatura per molti, idee rimaste sospese.
Alcuni la descrivono come una patologia, magari pigrizia, ma lasciare le cose a metà e più comune di ciò che si pensi.

Vediamo queste mezze realtà come impalcature di un definitivo, inutili di per sé.
 Rimangono lì, sospese nello spazio e nel tempo senza un identità perché “dovevano essere ma non sono”.
L’ansia di finire, ma anche quella di non riuscirci si scontrano in una lotta che molto spesso finisce con una resa, mettere via e non vedere è più semplice che mettere un punto.

La voce nella testa ci dice li finirai, forse, in un futuro, non oggi, ho di meglio da fare.

Un pò d’aria magari aiuta a trovare l’idea, una pausa e poi si torna al lavoro.
Anche per strada percepisco questa incompiutezza. Casa a cui manca il tetto, finestre senza vetri, muri senza porte, stanze senza pareti, non sono crollate, non sono rovine di un passato, sono rimaste lì sospese a metà, progetti incompiuti, architetture che sulla carte avevano una propria identità, ma sulla strada hanno cambiato faccia e sono rimaste lì, tra l’essere e il non essere.
Diventano frutto di una mancanza agli occhi di chi le guarda, fantasmi di ciò che sarebbero stati.

Le persone le guardano con occhi pieni di negatività, le definiscono macerie di un’amministrazione incapace.

Cerchiamo di immaginare ciò che sarebbero diventate, come sarebbero state quelle case se le persone ci abitassero al loro interno, come i bambini avrebbero giocato in quel parco o le macchine avrebbero potuto correre su quella strada, vediamo ciò che sarebbe dovuto, ma non ciò che è.

Non riusciamo a immaginare una casa senza pareti, o una piscina senza acqua al suo interno, perché nei nostri preconcetti abbiamo l’idea di come è e non riusciamo a liberarci da questa restrizione, non riusciamo a percepirla in modo nuovo.

Magari abitare in una casa senza il tetto ci lascia la libertà di vedere il cielo.

Aprire la mente e vedere lo spazio con occhi nuovi e non aggrapparci all’idea di quello che sarebbe potuto essere.

Non sono più rovine di un futuro che non avverrà, ma sono nuovi luoghi, nati per essere così.


Una cosa non finita lascia la libertà di immaginare ciò che si vuole, lascia spazio ad un nuovo modo di vedere, perché libera la mente da quelle barriere a cui siamo abituati, il conosciuto.


Quindi si, non sono incompiute, ma realizzate per essere così, parti di una nuova identità.
 Ho cercato di vedere in modo nuovo queste opere incompiute e andare oltre a ciò che sono.

Vederle per come sono e apprezzarle proprio per la loro “stranezza e diversità”, valorizzarle come opere assestanti e non come cantieri o idee in disuso.

L’idea di questo progetto è quella di creare una vera e propria corrente che comprenda qualunque tipo di artefatto che è rimasto, definiamolo a metà, e comprenderlo per ciò che è, valorizzare

il suo difetto non come tale, ma come un valore aggiunto, l’opportunità di essere qualcosa di nuovo e quindi avere una nuova funzione.

Uno stile molto più ampio, che vede l’architettura come massimo esponente, ma che comprende qualunque tipo d’arte o manufatto meno conosciuto o visibile.

Ma anche forma di vita, perché chi è compiuto veramente, chi si può definire fatto e finito:
 valorizzare la mancanza come un punto a favore e non un difetto.

Un lavoro che si può definire sperimentale, strambo o magari anche assurdo, o per altri che lo leggeranno “la perdita di tempo di una persona che non sapeva di cosa parlare”, ma come un lavoro che da la possibilità a chiunque di cercare di vedere le cose in modo diverso, di non lasciarsi influenzare e che non tutto nasce per essere in un unico modo.

E che magari sentirsi incompleti non è solo una forma di disagio che ci limita nella nostra quotidianità, ma un modo per valorizzarsi proprio per quei “buchi”.